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Lo Stato stratega dello sviluppo.
Lo Stato motore dell’innovazione.
Lo Stato regolatore del capitalismo.
Superare il Jobs Act e ripensare il sistema di tutele.

L’Italia ha sofferto per una serie di fattori fin dall’esplosione della crisi di dieci anni fa. Le politiche d’austerità hanno penalizzato lo sviluppo puntando solo a una riduzione del rapporto deficit/Pil, penalizzando domanda e consumi. Ma i problemi del nostro Paese vengono da più lontano e non riguardano, in particolare, il debito pubblico. Per la seconda potenza industriale d’Europa uno dei limiti principali è stata la scarsità di investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo. Non si deve dimenticare che gran parte dello sviluppo e della crescita nel nostro Paese sono stati innescati dall’investitore pubblico: il “miracolo economico italiano” è stato generato dallo Stato produttore. Oggi, le imprese industriali italiane si trovano a competere in mercati globali dovendosi confrontare con giganti multinazionali dotati di una enorme capitalizzazione.
Con le privatizzazioni delle grandi imprese pubbliche degli anni 90 è stata tagliata, nei settori interessati, la ricerca e sviluppo. Confrontandoci con la prima potenza industriale europea, la Germania, è facile riscontrare che lo Stato tedesco è un potente investitore nell’innovazione che mette ingenti risorse a disposizione delle imprese. I tempi dei “capitani coraggiosi” ci hanno consegnato un panorama produttivo depresso.
Se i Governi di centrosinistra hanno anche compiuto, recentemente, qualche utile azione in controtendenza, come il super e l’iper ammortamento e i programmi Industria 4.0 e Impresa 4.0, è però mancata una visione che guidasse l’azione dello Stato e stimolasse le imprese. Si pensi che in Germania, dove è nata, la strategia nazionale Industria 4.0 è stata accompagnata, in modo integrato, da un piano per il lavoro 4.0. La Germania, insomma, è un Paese che fa veramente sistema tra Stato e imprese.
Occorre dare una sterzata e non avere paura di dire che siamo convintamente antiliberisti e keynesiani. Il dogma delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, del ritiro dello Stato dall’economia, va smontato. Così come sulla crisi del capitalismo e della società contemporanea dobbiamo far nostro il pensiero di Stiglitz, Baumann e Judt. Sul rapporto tra Stato e mercato facciamo riferimento a solide elaborazioni come quelle di Mariana Mazzucato che, ne “Lo Stato innovatore”, ha sostenuto una tesi semplice e diretta: “Chi è l’imprenditore più audace, l’innovatore più prolifico? Chi finanzia la ricerca che produce le tecnologie più rivoluzionarie? […] Lo Stato”. Se in Italia questo non avviene o avviene in parte, è giunta l’ora di ripensare il nostro modello di sviluppo ricercando una nuova collaborazione tra Stato e imprese che sia capace di sollecitare la concorrenza leale e regolata e di salvaguardare le tutele e i diritti di uno Stato sociale moderno che ricostruisca le comunità e vinca la solitudine degli esclusi.
Insomma, non basta ribellarsi al limite al rapporto deficit/Pil: è necessario costruire una strategia nazionale economica, produttiva e dell’occupazione. Una strategia che esca dalla leggenda demagogica dello Stato che limita la libertà dell’impresa e lo sviluppo. Si deve aprire un forte confronto pubblico con i sindacati dei lavoratori e delle imprese per costruire questo processo con la massima partecipazione e il più vasto consenso. Solo così sarà possibile progettare una crescita dell’occupazione di qualità. Ovunque e sempre, ancor più nel mondo globale, lo Stato deve essere regista dello sviluppo, protagonista dell’innovazione, fonte di stimolo alle imprese, regolatore del capitalismo.
In questo senso, nell’ambito nazionale ed europeo, si deve agire con lucidità e decisione rispetto ad alcuni fenomeni. No al protezionismo, sì agli scambi commerciali equi e regolati, alla tracciabilità delle merci, ai marchi di origine dei prodotti e alla tutela delle imprese italiane. Occorre una politica doganale europea più forte per evitare i fenomeni di dumping, ad esempio quello cinese dell’acciaio, come ha rilevato anche l’Unione Europea.
Va contrastato il fenomeno di aziende che delocalizzano dopo aver usufruito di aiuti di Stato o dopo aver vinto gare d’appalto in Italia. La libera concorrenza è un valore, ma i comportamenti opportunistici vanno combattuti.
Per quel che riguarda i rapporti tra lavoro e impresa, sulla base di quanto già realizzato dalle più avanzate democrazie europee e, in attuazione dell’articolo 46 della Costituzione, occorre prevedere la presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle grandi aziende. Si deve insistere sul contrasto al dumping salariale e ai contratti pirata e alle cooperative spurie. Nelle gare d’appalto, occorre cancellare il massimo ribasso, che produce lavoro nero, e applicare l’offerta economicamente più vantaggiosa nella quale, tuttavia, la componente qualità deve essere prevalente. Occorre inoltre dare corretta attuazione alla clausola sociale nel cambio appalti e ripristinare la responsabilità solidale per garantire il rispetto delle normative contrattuali e il versamento dei contributi previdenziali a tutti i lavoratori coinvolti nell’appalto. In vari settori (call center, facchinaggio, pulimento ecc.), continuano ad essere stipulati contratti pirata, che danneggiano sia i lavoratori sia le imprese che rispettano leggi e contratti. Si deve intervenire con decisione, facendo sì che il Parlamento non inviti più ai tavoli di confronto le associazioni datoriali e sindacali firmatarie di contratti pirata.
Si devono determinare standard universali di tutele e retribuzioni per via contrattuale e legislativa. Evitare la competizione al ribasso sia per il lavoro dipendente sia per quello autonomo. Quindi, no ai contratti pirata, alle cooperative spurie, alla concorrenza sleale tra le imprese, alla derogabilità di leggi e contratti. Sì all’equo compenso e alle tariffe minime per i professionisti. Sì alla determinazione del salario minimo per legge per chi non ha un contratto di lavoro di riferimento.
È ora di rivalutare la concertazione e il dialogo sociale e valorizzare il ruolo dei corpi sociali intermedi. Una democrazia consolidata si basa su partiti, sindacati e associazioni fondati sul metodo democratico e sulla partecipazione.
Perciò, va rivisto il rapporto tra politica e sindacato. Si è passati dalla “cinghia di trasmissione”, all’autonomia, alla separazione e all’indifferenza, fino all’ostilità. Va ricostruito un campo “laburista” di confronto, fissando tempi e procedure agili di consultazione preventiva delle forze sociali.
In Italia, aldilà degli esempi citati sopra, non è stata proposta una strategia integrata che unificasse in modo coerente politica economica, politica industriale e politiche del lavoro. Forse nella speranza di agganciare la ripresa economica, si è inteso dare uno stimolo all’occupazione con il Jobs Act. L’errore fondamentale del Jobs Act, però, è quello di essere, principalmente una riforma del diritto del lavoro, accompagnata da sgravi contributivi consistenti e a tempo e senza alcuna forma di integrazione in un piano di politica industriale.
La storia degli ultimi decenni, dalla seconda metà degli anni Novanta del Novecento, ha ampiamente dimostrato l’incapacità delle riforme del mercato del lavoro di incidere sui nodi strutturali del nostro sistema produttivo e di migliorare i livelli occupazionali. È ampiamente e ripetutamente fallita la teoria, cui hanno aderito non pochi esponenti del centrosinistra, in base alla quale la liberalizzazione del mercato del lavoro, ovvero la riduzione del sistema dei diritti e delle tutele dei lavoratori, avrebbe favorito lo sviluppo economico e, di conseguenza, l’occupazione. Un po’ di Pil in più, in cambio di un po’ di diritti in meno, il tutto sotto la salvifica formula della flessibilità.
Un processo che ha colpito lo stesso concetto di “riforma”, da processo di emancipazione progressiva, a minaccia per le condizioni materiali e identitarie di milioni di lavoratori, soprattutto i più deboli, a cominciare dai giovani che, infatti, hanno voltato le spalle a quella sinistra autodefinitasi riformista che li sacrificava sull’altare di una pretesa modernizzazione, imposta dalla finanza internazionale. Così, non solo nei Paesi del Sud del Mondo, ma anche nelle economie avanzate, dopo i decenni d’oro dell’allargamento della base sociale, dello sviluppo economico, si è andato sempre più affermando il fenomeno di quelle che Baumann indica come “vite di scarto”, non più relegato alle frange marginali dei diseredati di qualunque epoca, ma condizione nella quale possono precipitare tutti coloro che dovessero risultare non più funzionali ai nuovi processi di accumulazione.
Per quel riguarda gli incentivi: il modello a spot del 2015 ha dimostrato di non funzionare e di essere esclusivamente legato a una logica miope di risultato a breve. L’obiettivo era quello di fare i “fuochi artificiali” nel 2015 con un incentivo “monstre” di 8.060 euro all’anno per un triennio per ogni nuovo occupato a tempo indeterminato. Questo vizio d’origine è già stato parzialmente corretto dal Governo Gentiloni: 3.000 euro di sconto per i primi 3 anni e per tutti quelli che verranno assunti stabilmente. Per sempre. Ma non basta: la misura deve essere strutturale.
Sono stati resi più facili e convenienti i licenziamenti ingiustificati, sono state tolte le causali ai contratti a tempo determinato e, con la legge Fornero, sono state abolite la Cassa integrazione in deroga e la mobilità.
La discussione sul Jobs Act si è concentrata su alcuni temi, ma non ha approfondito quello degli ammortizzatori sociali. Da un lato è stata ampliata la platea dei soggetti che precedentemente erano esclusi da questa tutela, dall’altro se ne è ridotta la durata a 24 mesi in una situazione di pesante e persistente crisi economica con decine di tavoli di crisi aziendali aperti e con la manovra Fornero che ha allungato l´età per la pensione. Adesso, sono in scadenza gli ammortizzatori iniziati due anni fa e tanti lavoratori si troveranno senza alcun reddito se non si provvederà con una proroga e un rifinanziamento urgente.
In nome della lotta agli abusi, è stata confermata l’eliminazione della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria per le imprese che cessano l’attività, già prevista dalla legge Fornero a partire dal 2016, ed è stata ridotta, dimezzata, la durata della Naspi ai lavoratori stagionali senza considerare che in diversi territori italiani esistono solo attività stagionali.
Oggi è necessario correggere questi errori del Jobs Act che nella scorsa legislatura avevamo già evidenziato e sui quali abbiamo lavorato per cercare di ridurre i danni.
C’è bisogno di riportare nel mondo del lavoro quella protezione che i lavoratori hanno sentito venire meno soprattutto nei momenti difficili delle crisi aziendali, multinazionali e non, con vertenze che si risolvevano sempre e soltanto con licenziamenti. Protezione e non solo opportunità.
Se l’intenzione di favorire la creazione di posti di lavoro a tempo indeterminato era in sé positiva, le tutele sul posto di lavoro sono state ridotte senza che sia stata concretamente offerta una maggiore protezione dei lavoratori sul mercato del lavoro. Bisogna, dunque, realizzare diverse modifiche, a partire dall’indicazione che è venuta dalla Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1 del Decreto legislativo n. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato, riconsegnando al giudice il compito di valutare la proporzione tra la gravità del licenziamento illegittimo e il risarcimento al lavoratore. Va altresì prevista, in alcuni casi, la reintegra nel posto di
lavoro. Così come va reintrodotta la Cassa integrazione per cessazione di attività e la Cassa integrazione in deroga.
In realtà, non è stata tenuta nemmeno presente una caratteristica della mutazione del mercato del lavoro che si è manifestata su scala globale nei Paesi sviluppati: dopo la crisi, il 60% dei posti di lavoro creati erano a tempo determinato. Probabilmente, anche a causa delle mutevoli necessità delle imprese nei mercati globali. Ragione per la quale è stato imprudente rivendicare al Jobs Act l’incremento dei posti di lavoro verificatosi quest’anno: molti di questi posti sono, appunto, a tempo determinato, Questo avrebbe richiesto un massiccio impulso alle politiche attive per il lavoro. Esse erano previste tra i provvedimenti del Jobs Act, con la nascita dell’Anpal, la cui implementazione ha proceduto, però, in modo stentato. Ancora una volta, guardando alla Germania, è facile vedere che gli operatori delle Agenzie per il lavoro tedesche sono dieci volte quelli italiani e che, inoltre, sono sorretti da una qualità della loro qualificazione assai più alta.
Sul tema del mercato del lavoro ribadiamo quindi la convinzione che l’attività prevalente debba essere quella a tempo indeterminato. Il lavoro flessibile deve costare di più del lavoro stabile. Noi siamo per la buona flessibilità, cioè per una flessibilità accompagnata dalle giuste tutele e da una adeguata formazione che garantisca una maggiore occupabilità. Pertanto, è stato opportuno reintrodurre le causali ai fini dell’assunzione a tempo determinato e limitare il numero dei rinnovi. Al fine di spostare l’andamento del mercato del lavoro verso la stabilità, va nuovamente previsto un incentivo, purché sia strutturale, per quanto riguarda le assunzioni a tempo indeterminato; ciò anche al fine di ridimensionare l’anomala situazione italiana di un cuneo fiscale troppo elevato rispetto alla media europea. Un efficace strumento di contrasto alle distorsioni presenti nel mercato del lavoro (finte Partite Iva, lavoro sottoprotetto) è la somministrazione che, come è noto, ha un costo del lavoro nettamente superiore a quello del lavoro a tempo indeterminato. Più elevato è infatti il tasso di lavoro in somministrazione nel mercato del lavoro, più basso è il ricorso al lavoro nero e sottotutelato.
Sul tema dei licenziamenti individuali illegittimi che, dopo il Jobs Act, sono diventati troppo facili e poco costosi, apprezziamo l’incremento delle mensilità del risarcimento da 4 a 6, fino ad un massimo di 36 mensilità, al posto delle precedenti 24, in relazione all’anzianità di servizio. Ciò, però, non basta a risolvere i quesiti posti dalla Corte.
Altro punto importante è quello della Gig Economy per il quale va previsto un intervento di regolazione contrattuale e legislativa che si muova su alcune direttrici fondamentali: la definizione di un salario minimo utilizzando le esperienze già esistenti. Da un lato, la tariffa oraria fissata nel 2007 per i voucher, pari a 10 euro lordi, dei quali 7,5 al lavoratore e il resto per i contributi Inps e Inail; dall’altro, il contratto della logistica, siglato dalle parti sociali il 3 dicembre 2017, che ha come obiettivo quello di definire la figura del rider. Oltre al salario minimo, occorre garantire a questi lavoratori le tutele di base: previdenza, malattia, infortuni e assicurazione (ad esempio, per gli incidenti stradali). Il punto dal quale partire è però quello relativo alla necessità di stabilire se siamo di fronte a lavoratori autonomi o dipendenti. Noi non condividiamo la sentenza del tribunale di Torino che ha stabilito che i riders sono lavoratori autonomi in quanto possono decidere se accettare di entrare o meno nella piattaforma logistica. Ci pare un argomento inconsistente. A nostro avviso, il vincolo di dipendenza è determinato dal fatto che, una volta entrati nel meccanismo, è la piattaforma digitale a dettare ritmi, tempi e metodi dello svolgimento del lavoro, in modo rigidamente predeterminato.
Il lavoro che vogliamo deve essere di qualità e sicuro. La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro è una tra le più alte espressioni di civiltà di un Paese moderno, perché ne certifica il grado di avanzamento sociale, economico e morale. Il tema della sicurezza deve rappresentare un terreno comune di dialogo tra le Istituzioni, le forze politiche e sociali, sul quale realizzare quel serrato confronto e quella ricerca di convergenze di cui il mondo del lavoro e l’intero Paese hanno urgente bisogno. Non si può continuare a morire di lavoro. Il tributo di sangue pagato dai lavoratori deve cessare. È indispensabile dare completa attuazione al Testo Unico – varato dieci anni fa – e innovare ulteriormente la normativa adattandola alle nuove sfide del lavoro che cambia e producendo un aggiornamento delle norme tecniche.
Un ruolo fondamentale nell’ambito delle politiche per il lavoro deve essere poi ricoperto dalla formazione che costituisce uno dei pilastri su cui promuovere un nuovo modello di sviluppo produttivo. La formazione rappresenta una chiave per la crescita nell’ambito della quarta rivoluzione industriale, caratterizzata dal rapido sviluppo dell’innovazione tecnologica e organizzativa. Formazione e open innovation diventano oggi sempre più essenziali in un contesto sociale ed economico caratterizzato dalla previsione che il 65% dei nostri bambini, domani, farà un lavoro che oggi non esiste (World Economic Forum). Secondo l’elaborazione Isfol su dati Istat è proprio la scarsa propensione delle imprese a fare formazione la causa della maggiore fragilità dei sistemi. Il quadro generale che emerge dalla lettura del contesto italiano nel confronto internazionale (Prospettiva Europa 2020), indica dunque che le imprese possono fare molto di più in questa direzione per rendersi competitive a livello nazionale ed europeo. Il finanziamento pubblico alla formazione continua, oggi disponibile per le imprese italiane, è distribuito per i 2/3 dai Fondi interprofessionali, che rappresentano una risorsa fondamentale per lo sviluppo della cultura della formazione tra gli occupati, e senza la cui valorizzazione non è possibile affrontare in modo compiuto il tema delle politiche attive del lavoro.

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