di Maurizio Sarti, Laburisti Dem Roma
Per rifondare la sinistra occorre ripartire dai valori dell’eguaglianza, della libertà, della giustizia sociale e della partecipazione democratica
“Sciogliere il popolo e eleggerne un altro” è il suggerimento sarcastico che Bertolt Brecht rivolse, nel 1953, al governo di Berlino Est che, di fronte a una rivolta operaia, fece distribuire un volantino nel quale si affermava che “il popolo ha, per colpa sua, perso la fiducia nel governo”.
Il paradosso sarcastico e pungente di Brecht, a 65 anni di distanza, sembra adattarsi efficacemente alla situazione politica attuale.
Forse, un popolo diverso da quello attuale non commetterebbe l’errore di farsi governare dall’attuale maggioranza gialloverde e, più consapevolmente, consentirebbe ad un governo di centrosinistra di proseguire fruttuosamente sulle politiche praticate negli ultimi anni.
Potrebbe essere questa la via d’uscita dall’attuale crisi di sistema e della sinistra, dove taluni (sempre di più) sostengono che la categoria destra/sinistra è superata e non ha più ragione di esistere, mentre, invece, occorre percorrere la strada dell’unità del popolo, della legalità e della democrazia diretta, abbandonando, in via progressiva, ma definitiva, la democrazia rappresentativa.
Potrebbe essere la scorciatoia dialettica che consentirebbe di evitare un’analisi non superficiale di come la sinistra nel corso degli ultimi anni (decenni) ha mutato sé stessa e mutando i propri riferimenti sociali.
Mi vengono in mente tre domande:
- In cosa la sinistra è cambiata?
- Attraverso quali processi la sinistra ha perso il suo popolo?
- Quali sono le attuali fratture sociali e come queste si distinguono da quelle classiche?
Alla fine di questo breve scritto proverò a rispondere anche ad un’ultima domanda: riuscirà la sinistra a cambiare il popolo o dovrà piegarsi a cambiare se stessa? La risposta sembra ovvia, ma, come vedremo, non lo è poi così tanto.
Iniziamo dalla prima domanda: in cosa la sinistra è cambiata?
Del ’68 la sinistra ha raccolto l’essenza della sfida di quel “movimento”, che propugnava il divieto di vietare, il godere senza freni, l’essere realisti e pretendere l’impossibile e, infine, il volere “tutto e subito”. Ma quegli slogan e l’animo profondo degli studenti (la futura/odierna classe dirigente) che manifestavano per le strade italiane, francesi, americane, ecc. rappresentavano un anelito socialista oppure erano le libertà individuali, la libertà assoluta senza divieti, ad essere rivendicate? Ma cosa aveva a che fare tutto questo con il socialismo? Ben poco, o forse nulla, quegli slogan mettevano sì in evidenza un anelito rivoluzionario, ma liberale, le cui tracce ritroveremo negli anni e nei decenni successivi. Progressivamente la sinistra si è fatta paladina dell’affermazione e della difesa dei diritti civili, che, non più tardi della prima metà degli anni settanta, erano patrimonio quasi esclusivo di radicali e liberali e visti con sospetto, se non con palese contrarietà, dall’allora Pci. Provo a redigerne un elenco disordinato: matrimoni civili, etero o omo che siano, omo genitorialità, fecondazione assistita ed eterologa, aborto, parità di genere, diritti delle minoranze in genere, tra cui carcerati, immigrati, nomadi ecc. Nel frattempo la sinistra dimenticava d’interessarsi a quella classe operaia e, in modo estensivo, lavoratrice, nei confronti della quale i governi di centrosinistra, non diversamente da quelli di destra, al di là degli interventi di merito realizzati e delle ragioni che li suggerirono, intervennero contraendo le tutele e regredendo alcuni aspetti fondamentali dello Stato sociale, talvolta confliggendo e mirando a depotenziare le organizzazioni sindacali anche non riconoscendogli la rappresentanza, declassando la loro funzione da mediazione a disturbo sociale. Per questa via la sinistra ha negato sé stessa. Qui non si tratta, come detto, di giudicare il merito degli interventi e il perché degli stessi, ma di rilevare con brutale crudezza ciò che è effettivamente avvenuto senza infingimenti e autoassoluzioni.
Affrontiamo ora tre aspetti che ritengo particolarmente duri e critici nel processo che ha allontanato la sinistra dal suo popolo e, per converso, il popolo dalla sinistra:
- L’immigrazione: progressivamente, nello spazio di tre decenni, la vecchia immigrazione temporanea è stata sostituita da un’immigrazione di massa che nessuno era pronto, principalmente dal punto di vista culturale e solo secondariamente materiale, a regolare, accogliere e integrare. Questa immigrazione ha prodotto una reazione, solo apparentemente xenofoba, da parte degli strati più deboli e indifesi della popolazione che si sono sentiti minacciati dagli albanesi, poi dai polacchi e dai rumeni e, infine, oggi, dai “negri” che vengono a “rubare il lavoro” e “stuprare le donne”. Ancora, il terrorismo islamico che indebolisce ancor più il senso di tolleranza, accoglienza e integrazione che è base indispensabile per l’accettazione diffusa di un fenomeno così complesso come è quello dell’immigrazione. In più si presentano culture che non conosciamo e non capiamo e verso le quali maturiamo un senso di contrarietà culturale e valoriale. A questo si affiancano: l’incapacità di affrontare l’immigrazione nella sua complessità, rifugiandosi nella casistica – dalle cause dell’immigrazione ai bisogni rappresentati da quelle persone – fino a ridurre al singolo “bravo immigrato”, alla generalizzazione della “criminosità immigrata” e all’uso, strumentale e cinico, a fini politici delle pur vere criticità che l’immigrazione come fenomeno non selettivo pone;
- L’Unione Europea, l’Euro e gli interventi salva banche minacciate dalla crisi del 2008: l’Unione Europea è stata costruita partendo da una grande intuizione politica di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi che esplicitarono il loro pensiero e progetto in Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, noto come il “Manifesto di Ventotene”. Ma la sua realizzazione non è avvenuta con il consenso dei popoli, ma a prescindere da loro, con imposizioni crescenti dall’alto verso il basso. Per questa via, da un generale afflato europeista ci si è progressivamente disamorati del progetto unitario. Un colpo importante è stato dato dall’ingresso nell’Euro che è stato individuato come la causa dell’impoverimento e della crescita dei prezzi, oltre che origine di una, pur necessaria, politica di contrazione della spesa pubblica, dovuta dall’alto tasso d’indebitamento del paese, che ha a sua volta ha causato tagli progressivi allo stato sociale italiano, a partire dalle riforme pensionistiche (si contano dal 1992 al 2012 ben 5 tra riforme e manovre economiche che hanno radicalmente mutato il sistema previdenziale italiano in soli 21 anni e stiamo per assistere ad una sesta) fino a quelle che hanno investito il mercato del lavoro producendo una continua crescita della precarizzazione dei rapporti di lavoro e la perdita o il depotenziamento di importanti strumenti di protezione contro la disoccupazione (in ultimo con il “job act” di renziana memoria). Infine, gli interventi di salvataggio del sistema bancario, duramente colpito dalla crisi del mercato immobiliare e dagli effetti prodotti dall’insolvenza dei mutui subprime di origine statunitense, che ha coinvolto anche il mercato e le banche europee e italiane. Questi interventi, a fronte di un peggioramento della vita dei popoli europei, a partire dalle fasce più deboli, ma esteso, poi, anche alle fasce medie e al crescere a dismisura del divario tra i più ricchi e i più poveri, ha innestato un forte risentimento e un progressivo allontanamento dall’UE, accompagnato dalla tendenza a rinchiudersi nei confini nazionali. Negli ultimi sondaggi emerge che gli italiani adottano un atteggiamento molto cinico nei confronti dell’UE che unisce la crescente delusione nell’Unione con la coscienza che non ne possiamo fare a meno. Insomma, come una coppia che non si sopporta più, ma che, per ragioni di convenienza materiale, non si può separare. In questo quadro la sinistra ha sempre svolto un ruolo fortemente, pervicacemente e decisamente europeista – senza se e senza ma – venendo così interpretata dalla gente come la forza politica che difende la causa dei propri guai;
- La globalizzazione: ha preso avvio dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’apertura dei mercati a est, creando anche le condizioni per un indebolimento della spinta riformatrice socialdemocratica, con il conseguente freno alle conquiste sociali dei trent’anni successivi al secondo dopoguerra, e di dumping sociale con l’entrata sul mercato del lavoro di schiere sempre più estese di lavoratori a basso costo, con il conseguente depotenziamento del potere della contrattazione collettiva. Tutto si è progressivamente ridotto all’osservanza scrupolosa della logica della produzione e del profitto. È pur vero che la globalizzazione ha consentito un impulso alla libera circolazione anche delle persone, e non solo dei beni e dei capitali, allo sviluppo del cosmopolitismo e di quello che Alain de Benoist definisce l’“umanesimo astratto”, ma a quale costo? Pochi hanno accresciuto la loro ricchezza e molti hanno subìto un impoverimento progressivo, fino a produrre la scomparsa della classe media, prodotto delle conquiste sociali. Per un lungo periodo ci siamo convinti che le elezioni si potevano vincere solo al centro, mentre sempre di più nel popolo della sinistra si perdevano i riferimenti ideali e i bisogni non trovavano più il partito politico in grado di interpretarli, rappresentarli e darne risposta. Sempre più la sinistra si è dimostrata matrigna nei confronti dei suoi figli più fragili e masse sempre più consistenti l’hanno abbandonata cercando nuovi riferimenti, che oggi sono riconosciuti nel M5S e nella Lega di Salvini.
La sinistra ha perso nel tempo anche la capacità di leggere la società e interpretarne i bisogni. Non si è accorta che la composizione sociale è cambiata, le fratture classiche – centro/periferia; Stato/Chiesa; città/campagna; capitale/lavoro – che hanno decisamente distinto tra loro “destra” e “sinistra” sono superate e con esse diviene concreto il rischio di superamento del binomio diatonico destra/sinistra.
Quelle fratture sociali sono state sostituite da nuove:
- Ricchi/poveri: è l’effetto della globalizzazione economica e finanziaria che ha determinato l’allargamento a dismisura del solco tra coloro che godono di cospicui patrimoni e coloro che sbarcano a malapena il lunario o vivono nelle situazioni più critiche e nell’indigenza;
- Futuro/senza futuro: questa seconda frattura mette in evidenza gli effetti dell’arresto dell’ascensore sociale che, per l’appunto, “blocca” ciascuno nella posizione di nascita senza poter cambiare il suo futuro e puntare a posizioni più ambite; anzi, per chi è nelle posizioni intermedie della società è più facile scivolare verso il basso che progredire verso l’alto. Per chi ha, il futuro non è un problema, mentre chi non ha, non ha futuro;
- Popolo/élite: l’allontanamento dal popolo ha causato la nascita di élite oligarchiche autorigenerantesi, a destra, ma anche a sinistra, che hanno preteso di governare senza il popolo o, peggio, nonostante il popolo. Ma, anche, il distanziarsi progressivo della sinistra bene, quella dei circoli culturali, dei salotti, e poi dei politici professionisti dell’ultimo quarto di secolo, dalla percezione dei bisogni, dal lamento della sofferenza, ha operato il distacco drammatico della sinistra dal popolo. Quando questo avviene in modo palese si ottiene una reazione di opposizione: il popolo si riappropria della sovranità e sovverte la realtà costruita e costituita (vedi “Brexit”) e porta al governo coloro che rappresentano la contestazione all’establishment al potere e raccolgono, nel loro complesso, le domande inevase e latenti nella popolazione, anche tra loro in contraddizione;
- Maschi/femmine: è la frattura verticale più dirompente, perché attraversa tutta la società nelle sue diverse espressioni; dalla famiglia al lavoro, dall’istruzione alla retribuzione, dai rapporti individuali a quelli tra gruppi. Questa frattura incide direttamente e profondamente nelle viscere del paese e ne mette in evidenza le profonde e incredibilmente evidenti contraddizioni;
- Noi/altri: sempre più si allarga il solco tra noi – gli italiani, nati da italiani, forse europei – e gli altri, gli immigrati, ma anche gli italiani, nati da non italiani, tanto da definirci e definirli per via identitaria, che include (identità) e esclude (alterità).
La sinistra è dunque superata? È superato, stantio, troppo novecentesco, il binomio diatonico destra/sinistra? Oppure siamo di fronte ad una colossale falsificazione, a una distrazione di massa? E, se così fosse, cosa dovrebbe fare la sinistra per trovarsi rinnovata in sintonia con il popolo e, soprattutto, tornare a governare con esso e non nonostante esso?
Qui il compito si fa arduo, ma seguendo i sassolini che abbiamo lasciato, come Pollicino, per la strada di questo scritto, provo a rifare il percorso a ritroso.
Mentre scrivo è da poco edito l’ultimo libro di Elsa Fornero dal titolo “Chi ha paura delle riforme: illusioni, luoghi comuni e verità sulle pensioni”, so bene che il suo nome non è, oggi, particolarmente popolare, né penso di aprire ora un dibattito sulle pensioni, ma lo utilizzo perché, leggendolo, sono inciampato in una sua affermazione che ritengo utile ai fini di questo ragionamento. Nel suo argomentare, a pagina 24, l’autrice, nel citare un’affermazione di Jean-Claude Juncker, secondo il quale “Noi sappiamo bene ciò che deve essere fatto; il problema è che non sappiamo come essere rieletti dopo che l’abbiamo fatto”, si stupisce che le persone non siano in grado “di capire ciò che è invece chiaro ai politici” e, poi, più avanti giunge alla conclusione che “è indispensabile una maggiore consapevolezza dei problemi da parte dei cittadini” e che per ottenere questo occorre puntare sull’educazione finanziaria della popolazione.
Ora, io concordo con Elsa Fornero in ordine alla necessità, non fosse altro che per una questione di gestione della quotidianità, di diffondere cultura finanziaria e, aggiungo, previdenziale nella popolazione, ma ridurre il distacco tra le istituzioni e il popolo a una questione di gap culturale e comunicativo mi sembra un po’ riduttivo; però aiuta a capire quanto la politica e l’accademia non riescano a porsi in sintonia con i bisogni e con quelle che definisco le domande sospese, talvolta inespresse, ma sicuramente inevase.
E siamo, così, tornati al punto di partenza: se il popolo non capisce (o non ci capisce) non resta altro che scioglierlo ed eleggerne un altro.
In effetti, un gap di comunicazione c’è e trova la sua origine nella perdita della capacità di ascolto, interpretazione e guida da parte dei partiti politici e dei maître à penser.
Occorre ripartire da lì, dall’ascolto, dall’assunzione dei valori dell’eguaglianza, della libertà, della giustizia sociale e della partecipazione democratica come base ineludibile per una rifondazione della sinistra.
Ricchezza e povertà: la riduzione delle distanze e la fuoriuscita dalla condizione di emarginazione sociale e di povertà economica non possono non essere gli obiettivi prioritari della sinistra. Lavoro, assistenza e previdenza è la triade che consente di realizzare una crescita sociale costante e progressiva. Il lavoro in tutte le sue forme è il faro guida di una formazione di sinistra politica e deve essere tutelato, anche attraverso strumenti normativi nuovi e avanzati, al passo con le esigenze della produzione. Non può esservi crescita del lavoro senza sviluppo, è perciò sugli stimoli all’economia, sostenibile e circolare, che solo lo Stato può dare, che è possibile sviluppare produzione e occupazione. L’assistenza, pur essendo per sua natura uno dei capisaldi dello stato sociale, ha svolto sempre un ruolo secondario se non marginale. Occorre restituire all’assistenza il ruolo che merita e del quale abbiamo estremo bisogno a partire dalle politiche di contrasto alla povertà, affrontata nella sua complessità e non, come si accinge a fare l’attuale governo, solo e in modo inefficace, in base alla deprivazione economica, parametrata in base ad una determinata soglia di reddito. L’approccio, che sembra farsi strada, della pratica attuazione del “reddito di cittadinanza”, co, ad esempio, la perdita dell’assegno in caso di rifiuto di tre offerte di lavoro, è, appunto, quello economico, condito dall’idea, per nulla nuova, che ci sono poveri buoni, quelli colpiti dalla sfortuna, e poveri cattivi, quelli dediti all’ozio che non hanno alcuna intenzione di lavorare. Non si fa, cioè, il passo necessario verso politiche integrate di contrasto alla povertà, che tengano insieme la deprivazione economica con la capacità/opportunità di realizzare condizioni di vita accettabili oltre la sola connotazione materiale: occorre cioè un approccio multidimensionale.
La previdenza è forse il campo che, nel corso del tempo, ha mostrato maggiore sensibilità sociale anche a causa di una pressione costante che dura da più di venticinque anni; le persone nutrono sempre maggiore diffidenza verso i governi dei partiti e rabbia verso le riforme più recenti, prima tra tutte quella che prende il nome della ex-ministro Fornero. La particolare delicatezza che si richiede a chiunque maneggi le tematiche previdenziali riguarda senza dubbio la sensibilità delle persone che hanno visto progressivamente allontanare il momento della pensione e, altrettanto progressivamente, ridurre l’importo dell’assegno. Ma anche il peso che il sistema pensionistico rappresenta sul bilancio dello Stato. Questo suggerisce di intervenire aggiustando e manutenendo il complesso normativo in vigore, senza strappi, in primo luogo per restituire alle generazioni più giovani la fiducia nel sistema pensionistico, senza mai dimenticare che non è fatto solo della pensione pubblica, ma anche di quella complementare e dell’ormai dimenticato terzo pilastro. Ecco, proprio su quest’ultimo vale la pena di procedere ad un suo reinserimento, eliminando la confusione esistente tra le forme pensionistiche ad adesione collettiva e quelle individuali. Occorre stimolare la riattivazione dell’ascensore sociale che consente di restituire fiducia nel futuro alle giovani e alle future generazioni, con interventi coordinati di concertazione con le parti sociali in materia di politica economica, politiche sociali sociali e pari opportunità.
Élite e popolo sono effettivamente alternativi? La scelta è tra l’oligarchia e la cuoca di Lenin? Più semplicemente, a mio parere, occorre una rappresentanza politica riconosciuta come rappresentanza di popolo, in grado di affiancare alla necessaria capacità di ascolto una più ampia capacità progettuale e visione di cambiamento e rappresentanza che sappia sollecitare una altrettanto ampia partecipazione diretta dei cittadini. È in questo ambito che occorrono, da una parte, regole chiare e stabili che consentano l’esercizio di un dibattito democratico interno a un partito strutturato e radicato sul territorio e, dall’altro, il recupero delle norme costituzionali, già approvate dal Parlamento nella scorsa legislatura, ma bocciate nella consultazione referendaria, che consentano un più semplice esercizio del diritto di partecipazione come l’obbligo fatto al legislatore di esprimersi sulle proposte di legge d’iniziativa popolare. Colmare il fossato, ricollegare rappresentanti e rappresentati, istituzioni e popolo attraverso canali trasparenti. Anche il partito si deve rinnovare, ricollegare al suo popolo, con strutture stabili operanti sul territorio in un rapporto costante e partecipato con i cittadini.
Uomini e donne: la questione femminile è ben lontana dall’essere risolta, anzi, la sua emersione, in questo terzo millennio, ha messo in evidenza le più macroscopiche contraddizioni sociali, produttive ed economiche. Faccio un solo esempio, senza alcuna intenzione conclusiva: l’educazione femminile nella famiglia, nella scuola e nelle relazioni amicali si caratterizza come impedimento all’istruzione tecnica; coloro che vi si approcciano, dopo aver superato gli ostacoli culturali appena detti, devono affrontare pregiudizi e tentativi di marginalizzazione; chi supera anche questi, o meglio, chi resiste, anche se è ben lontana dal superarli, deve affrontare gli intralci alla carriera e, il più delle volte, viene posta di fronte alla rinuncia, camuffata da scelta, tra carriera e maternità/famiglia. La donna deve, perciò, nella sua vita rinunciare o moltiplicarsi per provare ad affermarsi. Su questo terreno, forse più degli altri, perché li condensa e li rappresenta tutti, la sinistra deve centrare la sua attenzione. Non dimentichiamo, inoltre, la condizione delle donne e delle bambine nel resto del mondo. La questione femminile pone, per sua natura, l’esigenza di un rinnovato internazionalismo sul quale la sinistra dovrà misurarsi nei prossimi decenni.
Noi e gli altri: occorre fare un salto di qualità culturale condiviso, ponendoci come obiettivo quel nuovo internazionalismo a cui ho fatto poco sopra cenno. Il fenomeno migratorio non può essere affrontato con il “buonismo” o con l’esclusione e i respingimenti; deve essere affrontato dalla sinistra recuperando le proprie radici, senza dimenticare che per accogliere e integrare non si può prescindere da un’accoglienza organizzata e dimensionata sulla base di un flusso migratorio regolato e di un piano programmato di integrazione, la condivisione di un progetto sovranazionale di accoglienza e integrazione con gli altri paesi europei e l’adozione, nelle relazioni con i paesi di provenienza dei flussi, del multilateralismo e della diplomazia.
È evidente, a me che scrivo, che i fenomeni sociali rappresentati e le situazioni di disagio economico e sociale appena descritte si misurano, oggi, con la distanza delle Istituzioni e il discredito dei politici, ed è questo il gap che dobbiamo colmare per restituire al Paese la speranza nel futuro.