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Lo scenario della crisi tra politica ed economia

Il logoramento progressivo che affligge il Partito Democratico ha ragioni storiche. Questo è un fenomeno che riguarda le forze progressiste e di sinistra in tutto il mondo e che ha visto, negli ultimi anni, una violenta accelerazione. Ovunque, le sinistre subiscono un ridimensionamento del proprio consenso elettorale, con picchi che si presentano come vere e proprie disfatte, come quella del 4 marzo in Italia. La sinistra è percepita come distaccata dalle necessità del popolo.

Tali ragioni storiche non sono difficili da individuare: risiedono nei decenni che hanno cambiato il mondo, con il prevalere del neo-liberismo e con la globalizzazione senza regole, che rappresentano un autentico spartiacque nella storia. E nell’incapacità della nostra parte di elaborare una risposta alternativa alle sfide reali generate da questi processi. La sinistra, nel mondo, ha dato in molti casi prova di non contrastare o, addirittura, di assecondare le politiche neo-liberiste a partire dalla deregolazione dell’economia americana operata dall’Amministrazione di Bill Clinton. Le trasformazioni di questa epoca sono state progressive ed enormi: nel mondo, negli ultimi quaranta anni, alla crescita del Pil e della produttività, non ha corrisposto un incremento delle retribuzioni e un miglioramento del tenore di vita della classe media: l’Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro) osserva che in 36 economie sviluppate la produttività del lavoro è cresciuta a un ritmo quasi tre volte superiore alla crescita dei salari reali.
Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta la crescita del benessere investiva tutti i gruppi sociali. Ma con il prevalere delle teorie economiche ultra-liberiste sono state attuate politiche fiscali a favore delle classi più ricche sostenendo che queste, alla fine, avrebbero favorito tutti: le risorse date ai ricchi sarebbero inevitabilmente ‘filtrate’ al resto della popolazione in forma di investimenti produttivi. Ciò non è avvenuto. La crescita delle diseguaglianze, anche in momenti come la crisi del 2008, è stata giustificata a priori con una teoria che, poi, non ha trovato riscontro nella realtà, ovvero con l’idea che la crescita della ricchezza dei più abbienti si sarebbe tradotta in un vantaggio per l’economia in generale.
La società odierna risente di un lungo periodo di erosione della condizione della classe media. Chi lavora per vivere ha visto, via via, declinare le proprie opportunità e aspettative. Il Rapporto sulla mobilità sociale diffuso dall’Ocse a giugno del 2018 offre una prospettiva chiara, a partire da un dato storico: “la mobilità verso l’alto per persone i cui genitori avevano un basso grado di istruzione tendeva a crescere per i nati tra il 1955 e il 1975” per, poi, divenire stagnante per i nati dopo il 1975. Si è formato, per queste generazioni, un persistente “pavimento colloso” che impedisce di progredire.
“Le famiglie con reddito medio – spiega la scheda del Rapporto dedicata al nostro Paese – corrono un rischio sostanziale di scivolare verso il basso e di cadere in povertà nel corso della vita.” Nell’insieme dei Paesi esaminati, in merito ai nati dopo il ’75, il 70% degli appartenenti alla classe più ricca ha mantenuto la propria posizione. Il 60% degli appartenenti al 20% più povero della popolazione, tale è rimasto. E, se un bambino, in Italia, nasce nel 10% più svantaggiato della popolazione, la speranza di raggiungere il reddito medio riguarda la quinta generazione che lo seguirà: i nipoti dei nipoti. Con la scarsa mobilità verso l’alto, molti talenti potenziali vanno perduti. Questo indebolisce la produttività e la crescita economica.
All’estremità opposta, una mancanza di mobilità in cima alla piramide sociale si può tradurre in rendite persistenti per pochi a spese dei molti, a causa di un diseguale accesso alle opportunità educative, economiche e finanziarie. Il successo per i più ricchi e per i loro figli non dovrebbe essere raggiunto a spese degli altri: accaparrare le opportunità – spiega l’Ocse – è un male per la società e determina alti costi per l’efficienza. Più in generale, ci sono prove che suggeriscono che le prospettive di mobilità ascendente hanno anche un’influenza positiva sulla soddisfazione nella vita e sul benessere. Al contrario, rischi elevati di mobilità verso il basso e di perdita di status sociale tendono a ridurre la soddisfazione nella vita e a indebolire l’autostima individuale, la coesione sociale e la sensazione delle persone che la propria voce conti.
Il rancore e la rabbia su cui le forze, sbrigativamente definite populiste, hanno costruito il proprio successo nasce da questi fenomeni economici e sociali non letti né compresi dalle forze di sinistra così come da quelle della destra “tradizionale”, dal Partito Repubblicano Usa – la cui classe dirigente è stata scavalcata da Trump – a Forza Italia, la cui leadership nella sua area è sfumata, d’un colpo, il 4 marzo.
Di pari passo, sono le stesse democrazie ad aver subito una costante e progressiva azione di erosione. Il liberismo finanziario ha svuotato le Istituzioni democratiche in Italia come nel resto del mondo, spesso frustrando le fondamenta valoriali che hanno ispirato le Costituzioni più avanzate come la nostra. Se non si riparte da tale consapevolezza appariranno come inutili esercizi retorici gli anatemi contro i populismi sovranisti.
La finanziarizzazione dell’economia, figlia della deregulation reaganian-thacheriana, ha creato le condizioni per ribaltare i rapporti di forza tra l’Istituzione statale e i grandi operatori economici, con questi ultimi che hanno acquisito la primazia sullo Stato. Sono i grandi gruppi finanziari che stabiliscono le priorità e i confini entro i quali gli Stati sono autorizzati a giocare. Così le politiche in campo economico-sociale che le diverse coalizioni politiche hanno portato avanti in questi ultimi decenni hanno finito per somigliarsi drammaticamente, nonostante i crescenti squilibri sociali e la concentrazione della ricchezza.
Ancora, in relazione alla globalizzazione, si devono considerare non solo gli aspetti economici: è evidente la dilagante sensazione di perdita di sovranità. È diffusa la sensazione che tutto sia governato da Istituzioni sovranazionali e corporation multinazionali. Un sentimento che ha dato fiato alla spinta sovranista. L’accusa, mossa dalla sinistra ai sovranisti di “nazionalismo”, è insufficiente a spiegarne il successo, impopolare e perdente. L’aspirazione a un’Europa unita e pacifica si è trasformata in un sistema di iper-regolazione, in cui la volontà dei singoli Governi conta assai più dell’impulso a una crescita comune. L’Unione Europea si è manifestata, nell’ultimo decennio, come un austero gendarme dispensatore di un’austerità spinta dai Paesi più forti, più che come un promotore di solidarietà. Non dobbiamo mai dimenticare che l’articolo 1 della nostra Costituzione fonda la nostra Repubblica sui concetti di democrazia, lavoro e sovranità. Sovranità che appartiene al popolo che la esercita nei limiti della Costituzione stessa. Limiti definiti dalla Costituzione, non da altre forze.
Ci troviamo, dunque, di fronte a una mondo in cui l’angoscia e la perdita di prospettiva, causate dalla crescita inesorabile della disuguaglianza, trovano risposta nelle forze che indicano colpevoli e facili soluzioni e che offrono una parvenza di protezione sociale per molti perduta e da molti desiderata. Le forze di sinistra, che non hanno concretamente dato la sensazione di agire per tenere l’ascensore sociale in movimento, che hanno scelto il “modernismo” dimenticando le tutele, sono identificate come il più evidente “colpevole”, in quanto, con le loro parole d’ordine e le loro prassi di governo, sono state percepite come complici di un sistema tanto squilibrato. E quando un cittadino non si sente destinatario di quella solidarietà e promozione sociale fondata sullo sviluppo, allora non ha più motivazioni per tributare ad altri quella stessa solidarietà. La questione dell’immigrazione è stata efficacemente drammatizzata da forze che ne hanno fatto, in tutta Europa, la leva per scatenare la reazione a quella sensazione di perdita di garanzie e sovranità. Se la sinistra non riconquista il proprio ruolo non ha possibilità di recuperare. Promuovere eque opportunità, crescita sociale, innovazione, sviluppo e occupazione e speranza diffusa è il nostro compito. Un Paese senza speranza può decidere di rinunciare alla democrazia in cambio di un minimo di inclusione sociale. È già successo con il fascismo. Non ci illudiamo che non possa accadere di nuovo. Il nostro compito è batterci per una società in cui non ci siano “ultimi” né “periferie”. In cui la parola “cittadinanza” recuperi il senso della sovranità e di un destino comune da costruire insieme. Il nostro compito è combattere il “nuovo feudalesimo” generato dalle rendite finanziarie che non si convertono in investimenti produttivi e promuovere consistenti politiche redistributive. Allora, si potrà dire che ci si rivolge concretamente a quelle “periferie” sociali sprofondate nella marginalità. Allora il popolo tornerà ad ascoltare la voce della sinistra.

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